“Per noi è un grande risultato riuscire a esporre anche in via di allestimento le navi e mostrarle al pubblico, una grande soddisfazione che corona tanti anni di attività di progettazione e di esecuzione di un restauro estremamente complesso. Il museo è in via di allestimento, ci vorranno ancora due anni almeno per completarlo, ma nel frattempo si potranno vedere le prime navi restaurate”. Così ha esordito Andrea Camilli, Direttore Scientifico, Progettista e Direttore dei Lavori del Museo degli Arsenali Medicei sul lungarno pisano, nella giornata di apertura al pubblico di due degli otto padiglioni di cui sarà composto il museo.
Anche per Cooperativa Archeologia, che ha seguito i lavori dal 2004, l’apertura rappresenta il concretizzarsi di un percorso, lungo, irto di ostacoli e sfide scientifiche. La cooperativa esprime soddisfazione per essere riuscita a portare alla luce e conservare questo incredibile sito archeologico, ma anche per avere ora la possibilità di raccontarlo al pubblico, attraverso la voce di chi, in quel cantiere, ha lavorato, come archeologo e restauratore: una “filiera” virtuosa dal recupero alla valorizzazione dei ritrovamenti archeologici.
La scoperta risale al 1998, quando le ferrovie iniziarono uno scavo presso la Stazione di Pisa San Rossore. Emersero oggetti di legno di cui gli archeologi compresero subito l’eccezionale valore. Da lì iniziò il grande cantiere-laboratorio delle navi. Lo scavo ha permesso di riportare alla luce le navi e i reperti, di individuare i resti delle alluvioni che causarono il naufragio delle imbarcazioni e di riconoscere i diversi fondali come sono andati formandosi nel corso del tempo. I materiali – ceramica, oggetti in legno, corda, cuoio, resti vegetali e di fauna, relitti – sono stati rinvenuti negli scafi o nelle porzioni dei relitti, nei carichi delle imbarcazioni o nei fondali, caduti presumibilmente duranti i trasbordi da un’imbarcazione all’altra. La situazione stratigrafica è stata ovviamente complicata dall’azione delle correnti, che hanno eroso gli strati più antichi, rimescolandone i contesti.
L’ambiente umido ha consentito un eccezionale stato di conservazione dei reperti organici. Questo ha condizionato l’attività di scavo in quanto si è dovuto evitare che le parti lignee fossero eccessivamente esposte all’aria. Infatti il legno, conservatosi sott’acqua in assenza di ossigeno, è riuscito a mantenere la sua struttura anatomica: la mancanza di ossigeno ha impedito a funghi e batteri di proliferare e di intaccare la cellulosa e la lignina, componenti fondamentali del tessuto cellulare.
Per vedere tutti i quasi 5 mila metri quadri di esposizione si dovranno aspettare ancora un paio d’anni. Da oggi si potranno visitare due padiglioni, solo su prenotazione, guidati dagli archeologi e dai restauratori di Cooperativa Archeologia che hanno curato lo scavo e il restauro: il padiglione IV, che introduce le tecniche di costruzione delle navi in epoca romana ed espone la nave da trasporto A (fine del II sec. d.C.) con il suo materiale di bordo fatto soprattutto di anfore. Nel padiglione V vengono presentate al pubblico: la grande nave D, una nave da fiume per il trasporto di sabbia che per le sue dimensioni e il suo peso era trainata da riva con animali da soma; il traghetto I (fine II d.C. – inizi III sec. d.C.), a fondo piatto, una barca costruita interamente in quercia che serviva per il trasporto delle merci lungo le vie fluviali e manovrata a riva da un argano; la piroga F, sempre in legno di quercia, con la prua scolpita in un unico blocco in legno e con la forma asimmetrica come le gondole, per essere pilotata da un solo lato; è datata agli inizi del II sec. d.C.. È esposta anche la ricostruzione della Nave C, una cosiddetta liburna, cioè una nave da pattugliamento; consistenti tracce di colore del relitto hanno permesso di riprodurre il colore originario dello scafo, bianco, con rifiniture in rosso e il nero per il simbolo dell’occhio, una sorta di “portafortuna” a protezione delle avversità di chi va per mare. E’ l’unica nave in cui è stato ritrovato, sul banco dei rematori, inciso il suo nome, alkedo, che significa gabbiano.
“Delle 30 navi rinvenute”, spiega Laura Franci, Direttore Tecnico del cantiere per Cooperativa Archeologia “5 sono sostanzialmente integre. Di queste, due sono state restaurate per intero: avvolte nel guscio in vetroresina e messe a bagno in un prodotto specifico, la Kauramina. Le altre tre sono state smontate e sono state separate elemento per elemento e ricomposte poi al Museo delle Antiche Navi di Pisa, secondo i criteri di ritrovamento sullo scavo: la cosiddetta Nave A è adagiata come è stata ritrovata nell’area di scavo, la I per esigenze di conservazione è stata chiusa in un guscio in vetroresina. La Nave F è stata restaurata per intero, senza smontaggio. Queste quattro navi sono state restaurate in due anni, dal 2013 al 2015. Bisogna considerare che, a seconda delle dimensioni degli elementi, varia anche il trattamento. Il trattamento con la Kauramina, infatti, impregna il legno per un centimetro, circa, al mese. Ogni volta è stato quindi necessario fare una valutazione delle dimensioni del singolo pezzo e del suo spessore.”